sabato 21 febbraio 2015

Life Without Limbs


Il giorno in cui ho deciso di aprire il blog mi è tornato alla mente, come un flash, un video che mi era stato mostrato una mattina – volutamente senza nessuna premessa o anticipazione – durante una lezione di psicologia dello sviluppo atipico, del professor Fabio Sbattella, un uomo di grande saggezza e umanità. È così che sono venuta a conoscenza della storia dell'australiano Nick Vujicic, affetto da una rara alterazione genetica (tetramelia), straordinario esempio di resilienza. Ora mi sembra doveroso regalarvi questo video di notevole impatto emotivo, esattamente come quella mattina è stato donato a me. 

sabato 14 febbraio 2015

Sirena (Mezzo pesante in movimento)

Un'opera autobiografica nella quale l'autrice Barbara Garlaschelli, apprezzata anche per le sue storie noir, racconta come all'età di sedici anni, tuffandosi in mare, si sia lesionata la quinta vertebra cervicale, perdendo l'uso delle gambe e parzialmente quello delle braccia. Dieci mesi di ricovero e un rigoroso programma riabilitativo (dall'agosto 1981 al giugno 1982), prima in Italia poi in Germania, non le hanno permesso di recuperare l'uso delle gambe. Sirena è la storia di quel periodo. La scrittrice ci fa sentire appieno la sofferenza fisica e psicologica che ha provato. Una sua dote innata è senz'altro la capacità di ironizzare sulle situazioni, anche le più drammatiche: in questo libro parla della necessità di dissacrare la realtà con le risate per poter sopravvivere. 

Il titolo allude al mare, luogo dell’incidente. In realtà l’acqua viene descritta anche in termini positivi, perché in essa si svolge parte della rieducazione. L’acqua del resto è simbolo di vita e Barbara la descrive come l’elemento che ha reso possibile la sua rinascita. Afferma di non averne paura e che anzi la sensazione del contatto con l’acqua è per lei piacevolissima: "Le braccia sono forti e in acqua ho tutta la resistenza, l’autonomia, la scioltezza che non ho e non avrò più sulla terraferma. Adoro la sensazione del mio corpo che dondola nel mare. Non è proprio libertà. È più liberazione. Ed è una sensazione mia. Soltanto mia."

La narrazione, suddivisa in tre parti, è intervallata da brevi digressioni più riflessive, la cui tematica ruota principalmente intorno alla corporeità. La seconda tratta del suo rapporto con il proprio corpo: "Osservo i muscoli rilassati, il seno e la pancia rotondi e morbidi, i fianchi abbondanti, le spalle quadrate, le braccia e le mani troppo magre rispetto al resto, le gambe lunghe e, nonostante l'inattività, ben tornite, e sento di volergli offrire un'altra chance. Si merita amore questo corpo, come quello di tutti. E non solo l'amore fisico, ma quello che posso offrirgli io. Devo imparare a proteggerlo e per farlo capisco che devo esplorarlo, fargli correre dei rischi. Usarlo... Poi basta una carezza data da qualcuno che ti ama, basta che percepisca il fremito di un desiderio inespresso e, con stupore, questo corpo torna a essere mio.”
La terza digressione affronta il tema del pudore che lei deve abbandonare, perché deve accettare che altri si prendano cura del suo corpo: “Ho imparato col tempo a capire che chi ti ama, chi ti vuole stare vicino, non ha problemi a gestire il tuo corpo. A parte i timori di sbagliare o di farti male, timori che si superano con l'esperienza. Tu sei nudo quando lo è lui, nudo di fronte alla propria fragilità. Che è la tua, ma è anche la sua. Ho imparato a lasciarmi toccare, aiutare, cullare. Amare. Amarmi.”
Inoltre, per lei non solo la vita sessuale è possibile, ma è anche soddisfacente; non parla di amore casto, bensì della possibilità di provare godimento in un rapporto sessuale, anche se ha perso la sensibilità in buona parte del corpo: “Le sue mani mi stanno cercando. Le vedo, è il mio modo per sentirle. La sua lingua mi sta solleticando. Non ho bisogno di vederla. Stranamente, d'istinto, lui atterra dove il mio corpo è sensibile. Mi solleva e non smette di baciarmi... Sa che voglio guardarlo mentre viaggia sul mio corpo silenzioso. E quando è dentro di me non ho più bisogno di tenere gli occhi aperti per sentire il mio corpo cantare.” 

martedì 10 febbraio 2015

Una serata con Mister Noir


Giovedì sera alle 21.30 a Milano la presentazione del libro di Sergio Rilletti Le avventure di Mister Noir (Cordero Editore). Per saperne di più su Sergio e sul suo personaggio, il primo detective disabile seriale della letteratura italiana, potete leggere questo articolo: http://www.borderfiction.com/articoli/477-mister-noir-x-annniversario 
Il libro è disponibile in cartaceo e e-book su ibs.it e Amazon.it 

sabato 7 febbraio 2015

Se ti abbraccio non avere paura

Al romanzo Se ti abbraccio non avere paura di Fulvio Ervas, professore di scienze naturali e scrittore, Franco Antonello affida la storia del viaggio realmente compiuto in motocicletta nell’estate del 2010 insieme al figlio Andrea, un ragazzo con autismo: un percorso attraverso le Americhe, da Miami a Los Angeles e poi Messico, Panama, Costa Rica, Belize, Guatemala e Brasile; quindi dai ricchi Stati Uniti a paesi più poveri dell’America Latina. Ed è evidente come sia in questi ultimi che i due viaggiatori trovano maggiore arricchimento. In Italia Andrea stentava a relazionarsi con gli altri, veniva  isolato, mentre in America Latina, soprattutto in Brasile, lontano dalle società del benessere, le persone sembrano accoglierli e coinvolgerli con più naturalezza. Grazie agli incontri in questa fase del viaggio, Andrea matura una maggiore capacità di stare in mezzo alla gente. La nostra società è troppo frenetica per riconoscergli un ruolo e per dare possibilità di espressione a persone come lui.  Nella narrazione l’autore coglie anche la valenza simbolica del viaggio: un percorso di crescita che riguarda entrambi, padre e figlio, impegnati a sviluppare il loro rapporto, a conoscersi reciprocamente, condividendo e comunicandosi esperienze a dispetto dell’isolamento in mondi separati che l’autismo dovrebbe provocare. Alle base del viaggio c’è anche un bisogno di libertà da vivere insieme.

“L’idea di un grande viaggio ha cominciato a lavorare dentro, in silenzio. Come un virus… non sentivo il bisogno di un progetto dettagliato. Per Andrea le ore di ogni singolo giorno sono sempre un imprevisto: sarà così anche per me, e andrà come deve andare.”
I due si avventurano in un’esperienza fatta di imprevisti, che è il contrario della routine nella quale vivono le persone con autismo. Un viaggio impegnativo e per molti aspetti un azzardo, una scelta che contravviene ai consigli di qualsiasi medico, per le tante difficoltà di gestione di Andrea intimamente legate alle sue "stereotipie".

“PER COMUNICARE MEGLIO VORREI UN AIUTINO… UN CONSIGLIO DA PARTE TUA SAREBBE MOLTO GRADITO…
Tu mi credi normale rompi palle e maleducato, io sono sensibile diverso e molto solo
DAI, UN ALTRO CONSIGLIO SU COME TI DOVREI TRATTARE. VA BENE COME MI COMPORTO O…?
Papa per me è unico mi piacerebbe che andrea fosse unico per papa
TI SEMBRA NON SIA COSI?
Ho aspetti anche belli tu li conosci
CREDO DI NON CONOSCERLI TUTTI ANDREA. AIUTAMI, DIMMI QUALI SONO PER TE I PIU' BELLI…
No papà non è mio compito.”

L’esigenza di Andrea è di essere amato e riconosciuto come persona, nella sua originalità e unicità, nei suoi spazi e tempi di crescita. Questo fa capire che nuezQon bisogna avere fretta, o cercare scorciatoie nella relazione, ma occorre rispettare i tempi dell’altro per arrivare a comprenderlo. Vale l’ammonimento di Rousseau per cui “l’educazione è perdere tempo per guadagnarne”. 

martedì 3 febbraio 2015

Nomi e pregiudizi

Questo blog nasce come tentativo di aprire spazi di riflessione sulla questione della disabilità. Il tema, che merita articolati approfondimenti data la sua complessità, richiede un esame teorico e pratico necessario per la comprensione e valutazione della società nella quale viviamo.  Non si è subito in grado di cogliere la soggettività altrui. Occorre una lunga e attenta riflessione perché “l’altro” non venga ridotto all’oggettività della sua condizione fisica e sociale. Pensiamo alla facilità con cui vengono classificati “gli altri” facendo riferimento alla loro patologia o ai loro limiti di funzionalità: ciechi, sordi, muti, invalidi, mutilati, paraplegici, tetraplegici, handicappati… o “diversamente abili”, per finire con l’espressione politicamente corretta, piuttosto inconsistente. Come direbbe Massimiliano Verga, “è il virus del politicamente corretto che rende tutti più buoni, che trasforma lo spazzino in operatore ecologico, il controllore del tram in tutor di linea, il muratore in addetto all’edilizia. E via dicendo.” La classificazione dell’altro è pur sempre rassicurante e questo linguaggio rischia di diventare un modello con cui le stesse persone finiscono con il rappresentare loro stesse quando si trovano nella condizione di una malattia. Usciamo da questa falsificazione e torniamo allora alla domanda: ma come dobbiamo chiamarli costoro, se non possiamo definirli handicappati, diversamente abili…? Come suggerisce Adriano Pessina, chiamiamo ognuno di loro, di noi, per nome proprio: Camilla, Marica, Sebastiano... “Privare del nome proprio qualcuno per definirlo con il nome della sua patologia o delle sue limitazioni funzionali, significa porre le basi per mutare il senso stesso delle relazioni come relazioni di giustizia… Se la giustizia significa, secondo un detto antico, dare a ciascuno il suo, la prima cosa che dobbiamo ‘restituire’ agli altri è il senso della loro soggettività perché è nel nome proprio che sta il fulcro di ogni relazione. Può sembrare un paradosso ‘dare a ciascuno il suo’ perché se è suo non c’è bisogno di darglielo, e se non lo è non gli si deve nulla... (Ma) fa pensare al fatto che a qualcuno è possibile sottrarre proprio ciò che gli appartiene.”