martedì 21 luglio 2015

Le avventure di Mister Noir

Una raccolta di racconti thriller umoristici, nati nell’arco di un decennio, ciascuno come una storia autonoma. Ma alla fine della lettura possono essere collegati tra loro, creando la continuità narrativa di una vera e propria saga. Il personaggio principale è Mister Noir, affascinante detective privato di Milano in sedia a rotelle, affetto da tetraparesi spastica. Il primo eroe disabile seriale della storia della letteratura italiana, si presenta come un personaggio atipico, geniale, realistico in ciò che riguarda la sua vita quotidiana, ma capace di imprese eccezionali e a tratti bizzarro, come ci si aspetta da un personaggio che si inserisce nella tradizione dei grandi investigatori alla Sherlock Holmes... con un pizzico di James Bond.

Mister Noir s'immerge in ogni contesto a dispetto delle barriere architettoniche e usa le sue enormi capacità di osservazione e deduzione per annientare tutti i suoi rivali. Il libro nasce evidentemente dall'esperienza autobiografica dell'autore, Sergio Rilletti, che il pubblico delle serate milanesi dedicate alla letteratura di genere può incrociare ai "Borderfiction Eventi" dell’Admiral Hotel o ai "Giovedì Mistero Pinketts" del Balubà Café Restaurant, spesso al fianco dei suoi due padrini Andrea G. Pinketts e Andrea Carlo Cappi. Combattente inarrestabile nella sua relativa immobilità, scrittore infaticabile senza poter adoperare facilmente le mani, personaggio pubblico pur con qualche difficoltà di parola (risolta abilmente con l’uso di capaci interpreti e doppiatori).
D’altra parte Sergio Rilletti non si rassegna ad alcun limite: con lui gli ostacoli crollano. Tutto quello che manca al corpo di quest'uomo straordinario è nei suoi occhi che sorridono, parlano, ironizzano, graffiano, chiedono senza implorare, ti lasciano addosso  sentimenti incontenibili. Del nostro incontro, durante la presentazione del suo libro con Pinketts e Cappi nel giugno 2015 a Le Trottoir di Milano, ho un ricordo di Sergio che conservo con grande piacere!

I racconti de Le avventure di Mister Noir (Cordero Editore – Collana M, disponibile  in volume su www.ibs.it e in ebook su Amazon) esplorano con molto humour tanto i sottogeneri della narrativa mystery, dal giallo classico al gotico, quanto le tematiche legate alla disabilità, ricorrenti e trasposte dalla vita dello scrittore a quella del suo alter ego letterario, dunque proprio per questo piene di autorevolezza.  La presenza costante dell'autoironia, dote innata di Rilletti, arricchisce notevolmente l'opera, rendendo i dialoghi straordinariamente coinvolgenti... e più affilata la penna dell'autore, quindi più efficace il messaggio che ci vuole trasmettere. 
Mister Noir è circondato da una serie molto varia di personaggi brillanti e originali: tra i principali Elena Fox, detective privata e sua assistente personale, e Consuelo Gomez, domestica filippina tanto saggia quanto confusionaria. Entrambe hanno un ruolo fondamentale di sostegno al protagonista. Allo stesso tempo l'autore ci mostra in maniera magistrale quanti aspetti comici possano esserci nella vita a fianco di una persona con disabilità... non solo frustrazione e angoscia, come si potrebbe pensare. Questo è il fulcro dell’opera, ma sullo sfondo ci sono indagini, incubi premonitori, apparizioni, fughe, inseguimenti, omicidi, rapimenti, esperimenti illeciti, complotti internazionali... tutte le possibili avventure di un personaggio che potrebbe essere uscito dalle più divertenti serie di telefilm americane degli anni Sessanta-Settanta.
Sergio Rilletti ha il coraggio di vincere ogni reticenza e di elevarsi al di sopra delle gerarchie sociali, dei luoghi comuni sulla cosiddetta diversità. In queste pagine non c'è riparo possibile per coloro che considerano in modo ingiustificatamente sfavorevole le persone con disabilità, di cui l’autore illustra con allegra noncuranza l'utilità sociale attraverso l'originalità di Mister Noir, una mente straordinariamente brillante. Ci sarebbe bisogno di altri libri come questo – e ce ne saranno, dato che  sono previsti altri volumi di questa serie – tanto divertenti quanto capaci di acuire il nostro sguardo, senza essere rivolti solamente agli appassionati di thriller o a chi si occupa a livello professionale di tematiche legate alla disabilità.
Per Rilletti la scrittura è una sfida a se stesso – pratica, concreta e continua – che vince pienamente: una professione e una gratificazione... oltre che un’occasione per ringraziare coloro che sono al suo fianco giorno per giorno. Mi viene il sospetto di aver trovato non solo uno scrittore di talento, ma anche un sapiente provocatore socio-culturale.

giovedì 2 aprile 2015

Giornata Internazionale dedicata all'Autismo 2015

La Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell'Autismo voluta dall'ONU si celebra ogni anno il 2 aprile ed è una buona occasione per formarsi e formare una maggiore conoscenza, ed eliminare una serie di equivoci che ancora persistono. Innanzitutto l'idea che l'autismo sia un disturbo infantile: se è vero che si comincia a notare l'autismo nell'infanzia, nel secondo e terzo anno di vita, è vero anche che esistono adulti autistici (che può sembrare un aggettivo discriminatorio ma non lo è). 

Si tratta di un disturbo dello sviluppo. Non lo si deve guardare come un'immagine permanente, immutabile. Trattandosi di un disturbo che colpisce tutto lo sviluppo mentale, i sintomi appariranno differenti nelle diverse età. Alcune caratteristiche si manifesteranno solo tardi, altre scompariranno col tempo.
Attualmente per la diagnosi di autismo vengono applicati i criteri che seguono, basati su uno schema curato dall'OMS, che devono essere tutti presenti, non soltanto uno o due, ed essere comparsi fin dalla prima infanzia. Non dimentichiamoci che gli individui con autismo hanno ciascuno una personalità distinta e unica, e il proprio modo di vivere le giornate, esattamente come chi non è affetto da autismo. 

1) Dev'esserci un disturbo qualitativo dell'interazione sociale reciproca. Lo scarso uso di sguardi, quindi guardare le persone <<attraverso>>, non entrare in quel genere di contatto visivo che ci si aspetta nelle conversazioni. Contemporaneamente si deve riscontrare lo scarso uso della gestualità.
2) Dev'essere presente un disturbo qualitativo della comunicazione verbale e non verbale. Molti bambini affetti da autismo non parlano fino a molto più tardi rispetto ai loro coetanei, e qualcuno mai. 
3) Fra i sintomi comportamentali vi sono i movimenti ripetitivi o stereotipati. I fenomeni comprendono semplici stereotipie motorie come grattarsi, schioccare le dita e dondolarsi. Si tratta per altro di comportamenti ripetitivi a volte comuni anche in soggetti non autistici. 

Le caratteristiche non sociali non sono necessariamente associate con problemi comportamentali e possono contribuire a capacità eccezionali. Per esempio, il sorprendente vocabolario dei bambini che parlano (a dispetto della carente comunicazione), l'eccellente memoria visiva, e il preciso ricordo di figure e sequenze complesse, sono l'indizio di una grande intelligenza; cui si aggiungono anche grandi capacità manuali e produttive, come io stessa ho potuto constatare operando presso l'Associazione L'Ortica di Milano. Dopotutto, l'autismo è anche compatibile con grandi talenti. Ci sono bambini eccezionalmente dotati e i processi di adattamento e apprendimento sono attivi tutta la vita. Dobbiamo ricordare che predire il futuro di un particolare bambino affetto da autismo è tanto incerto quanto lo è predire il futuro di qualunque altro bambino. Crescendo, la loro comprensione aumenta e le interazioni con gli altri possono migliorare. 
L'autismo è un mondo parallelo e affascinante sotto gli aspetti della mente e del comportamento umano, e non può essere certo condensato in questo discorso introduttivo; spero che da questo primo post sull'argomento i lettori meno informati possano cominciare a farsi un'idea più precisa riguardo all'autismo, che non va trascurato dal momento che riguarda una percentuale crescente della popolazione.
Avremo modo di tornare sul tema prossimamente, parlando di teorie, riscontri, risvolti, e trovando anche singolari paralleli in personaggi famosi, della storia, della letteratura, della cinematografia... Intanto vi invito a guardare questo interessante video de “Il Fatto Quotidiano”.

domenica 1 marzo 2015

Quasi amici - Intouchables

Un film del 2011 scritto e diretto da Olivier Nakache ed Eric Toledano, vincitore di parecchi premi internazionali e campione di incassi alla sua uscita in Francia. Liberamente ispirato alla vera storia di un ricco nobile francese, Philippe Pozzo di Borgo, tetraplegico a seguito di un incidente di parapendio, che assume come proprio aiutante domestico Yasmin Abdel Sellou, ex detenuto di origini algerine. 

Il Philippe del film (François Cluzet) quando cerca tra i tanti aspiranti al posto, referenziati e incravattati, trova Driss (Omar Sy), senegalese di nascita che vive nella banlieu parigina e che si è presentato al colloquio solo per continuare a ricevere il sussidio di disoccupazione. Philippe fin da subito guarda Driss senza pregiudizi e lo sceglie, scommettendo su di lui, perché quello che cerca è “nessuna pietà”. Dice il personaggio: “Spesso mi passa il telefono, sai perché? Perché si dimentica. È vero, non ha una particolare compassione per me, però è alto, robusto, ha due braccia, due gambe, un cervello che funziona, è in buona salute. Allora di tutto il resto a questo punto, nel mio stato, come dici tu, da dove viene, che cosa ha fatto... io me ne frego." 

Philippe necessita di un'assistenza quotidiana in quanto non autosufficiente negli spostamenti (può muoversi sulla sedia a rotelle a motore pilotandola con la bocca), nell'alimentazione, nel vestirsi e nell'espletare i bisogni fisiologici. Inoltre le complicazioni respiratorie rendono precaria la sua salute. Il film mette in scena l'incontro tra due mondi paralleli, che di norma non sarebbero mai destinati a incontrarsi: quello di un raffinato intellettuale appassionato di arte, musica classica, letteratura, macchine di lusso e sport estremi, e quello di un giovane immigrato, che vive di espedienti in una famiglia numerosa ai margini della società. I due uomini stanno vivendo un momento di profonda solitudine: più che dell'incidente Philippe soffre per la morte della moglie; Driss è stato praticamente ripudiato dalla madre adottiva e non ha uno scopo nella vita; ma entrambi capiscono di avere interesse ad aiutarsi. 
All'inizio tra loro si instaura un rapporto di reciproca provocazione. Philippe sfida Driss ad assumersi responsabilità; Driss porta, nella rigida routine della dimora e del personale del suo datore di lavoro, la sua irruenza e la sua irriverenza, facendo nascere fra i due una complicità che sfocerà in autentica amicizia.
Il titolo originale Intouchables è molto più incisivo dell'italiano Quasi amici. Lascia intendere che ciascuno a suo modo, il disabile e l'immigrato, sono ambedue estraniati dalla società. Il punto è proprio questo: come non sentirsi emarginati in una società individualista come la nostra? Dimentichiamoci che Philippe è colto ricco e intelligente e che Abdel (trasfigurato nella pellicola in Driss) è uscito di prigione e appartiene a un'altra etnia. Sono due esseri umani che si aiutano. L'autentico messaggio di questo film, ironico e a tratti impietoso è che non c'è bisogno di arrivare a sentirsi tristi e soli e perduti per andare a cercare l'altro. 
Forse il vero problema, ancora una volta, è di tutti noi.

sabato 21 febbraio 2015

Life Without Limbs


Il giorno in cui ho deciso di aprire il blog mi è tornato alla mente, come un flash, un video che mi era stato mostrato una mattina – volutamente senza nessuna premessa o anticipazione – durante una lezione di psicologia dello sviluppo atipico, del professor Fabio Sbattella, un uomo di grande saggezza e umanità. È così che sono venuta a conoscenza della storia dell'australiano Nick Vujicic, affetto da una rara alterazione genetica (tetramelia), straordinario esempio di resilienza. Ora mi sembra doveroso regalarvi questo video di notevole impatto emotivo, esattamente come quella mattina è stato donato a me. 

sabato 14 febbraio 2015

Sirena (Mezzo pesante in movimento)

Un'opera autobiografica nella quale l'autrice Barbara Garlaschelli, apprezzata anche per le sue storie noir, racconta come all'età di sedici anni, tuffandosi in mare, si sia lesionata la quinta vertebra cervicale, perdendo l'uso delle gambe e parzialmente quello delle braccia. Dieci mesi di ricovero e un rigoroso programma riabilitativo (dall'agosto 1981 al giugno 1982), prima in Italia poi in Germania, non le hanno permesso di recuperare l'uso delle gambe. Sirena è la storia di quel periodo. La scrittrice ci fa sentire appieno la sofferenza fisica e psicologica che ha provato. Una sua dote innata è senz'altro la capacità di ironizzare sulle situazioni, anche le più drammatiche: in questo libro parla della necessità di dissacrare la realtà con le risate per poter sopravvivere. 

Il titolo allude al mare, luogo dell’incidente. In realtà l’acqua viene descritta anche in termini positivi, perché in essa si svolge parte della rieducazione. L’acqua del resto è simbolo di vita e Barbara la descrive come l’elemento che ha reso possibile la sua rinascita. Afferma di non averne paura e che anzi la sensazione del contatto con l’acqua è per lei piacevolissima: "Le braccia sono forti e in acqua ho tutta la resistenza, l’autonomia, la scioltezza che non ho e non avrò più sulla terraferma. Adoro la sensazione del mio corpo che dondola nel mare. Non è proprio libertà. È più liberazione. Ed è una sensazione mia. Soltanto mia."

La narrazione, suddivisa in tre parti, è intervallata da brevi digressioni più riflessive, la cui tematica ruota principalmente intorno alla corporeità. La seconda tratta del suo rapporto con il proprio corpo: "Osservo i muscoli rilassati, il seno e la pancia rotondi e morbidi, i fianchi abbondanti, le spalle quadrate, le braccia e le mani troppo magre rispetto al resto, le gambe lunghe e, nonostante l'inattività, ben tornite, e sento di volergli offrire un'altra chance. Si merita amore questo corpo, come quello di tutti. E non solo l'amore fisico, ma quello che posso offrirgli io. Devo imparare a proteggerlo e per farlo capisco che devo esplorarlo, fargli correre dei rischi. Usarlo... Poi basta una carezza data da qualcuno che ti ama, basta che percepisca il fremito di un desiderio inespresso e, con stupore, questo corpo torna a essere mio.”
La terza digressione affronta il tema del pudore che lei deve abbandonare, perché deve accettare che altri si prendano cura del suo corpo: “Ho imparato col tempo a capire che chi ti ama, chi ti vuole stare vicino, non ha problemi a gestire il tuo corpo. A parte i timori di sbagliare o di farti male, timori che si superano con l'esperienza. Tu sei nudo quando lo è lui, nudo di fronte alla propria fragilità. Che è la tua, ma è anche la sua. Ho imparato a lasciarmi toccare, aiutare, cullare. Amare. Amarmi.”
Inoltre, per lei non solo la vita sessuale è possibile, ma è anche soddisfacente; non parla di amore casto, bensì della possibilità di provare godimento in un rapporto sessuale, anche se ha perso la sensibilità in buona parte del corpo: “Le sue mani mi stanno cercando. Le vedo, è il mio modo per sentirle. La sua lingua mi sta solleticando. Non ho bisogno di vederla. Stranamente, d'istinto, lui atterra dove il mio corpo è sensibile. Mi solleva e non smette di baciarmi... Sa che voglio guardarlo mentre viaggia sul mio corpo silenzioso. E quando è dentro di me non ho più bisogno di tenere gli occhi aperti per sentire il mio corpo cantare.” 

martedì 10 febbraio 2015

Una serata con Mister Noir


Giovedì sera alle 21.30 a Milano la presentazione del libro di Sergio Rilletti Le avventure di Mister Noir (Cordero Editore). Per saperne di più su Sergio e sul suo personaggio, il primo detective disabile seriale della letteratura italiana, potete leggere questo articolo: http://www.borderfiction.com/articoli/477-mister-noir-x-annniversario 
Il libro è disponibile in cartaceo e e-book su ibs.it e Amazon.it 

sabato 7 febbraio 2015

Se ti abbraccio non avere paura

Al romanzo Se ti abbraccio non avere paura di Fulvio Ervas, professore di scienze naturali e scrittore, Franco Antonello affida la storia del viaggio realmente compiuto in motocicletta nell’estate del 2010 insieme al figlio Andrea, un ragazzo con autismo: un percorso attraverso le Americhe, da Miami a Los Angeles e poi Messico, Panama, Costa Rica, Belize, Guatemala e Brasile; quindi dai ricchi Stati Uniti a paesi più poveri dell’America Latina. Ed è evidente come sia in questi ultimi che i due viaggiatori trovano maggiore arricchimento. In Italia Andrea stentava a relazionarsi con gli altri, veniva  isolato, mentre in America Latina, soprattutto in Brasile, lontano dalle società del benessere, le persone sembrano accoglierli e coinvolgerli con più naturalezza. Grazie agli incontri in questa fase del viaggio, Andrea matura una maggiore capacità di stare in mezzo alla gente. La nostra società è troppo frenetica per riconoscergli un ruolo e per dare possibilità di espressione a persone come lui.  Nella narrazione l’autore coglie anche la valenza simbolica del viaggio: un percorso di crescita che riguarda entrambi, padre e figlio, impegnati a sviluppare il loro rapporto, a conoscersi reciprocamente, condividendo e comunicandosi esperienze a dispetto dell’isolamento in mondi separati che l’autismo dovrebbe provocare. Alle base del viaggio c’è anche un bisogno di libertà da vivere insieme.

“L’idea di un grande viaggio ha cominciato a lavorare dentro, in silenzio. Come un virus… non sentivo il bisogno di un progetto dettagliato. Per Andrea le ore di ogni singolo giorno sono sempre un imprevisto: sarà così anche per me, e andrà come deve andare.”
I due si avventurano in un’esperienza fatta di imprevisti, che è il contrario della routine nella quale vivono le persone con autismo. Un viaggio impegnativo e per molti aspetti un azzardo, una scelta che contravviene ai consigli di qualsiasi medico, per le tante difficoltà di gestione di Andrea intimamente legate alle sue "stereotipie".

“PER COMUNICARE MEGLIO VORREI UN AIUTINO… UN CONSIGLIO DA PARTE TUA SAREBBE MOLTO GRADITO…
Tu mi credi normale rompi palle e maleducato, io sono sensibile diverso e molto solo
DAI, UN ALTRO CONSIGLIO SU COME TI DOVREI TRATTARE. VA BENE COME MI COMPORTO O…?
Papa per me è unico mi piacerebbe che andrea fosse unico per papa
TI SEMBRA NON SIA COSI?
Ho aspetti anche belli tu li conosci
CREDO DI NON CONOSCERLI TUTTI ANDREA. AIUTAMI, DIMMI QUALI SONO PER TE I PIU' BELLI…
No papà non è mio compito.”

L’esigenza di Andrea è di essere amato e riconosciuto come persona, nella sua originalità e unicità, nei suoi spazi e tempi di crescita. Questo fa capire che nuezQon bisogna avere fretta, o cercare scorciatoie nella relazione, ma occorre rispettare i tempi dell’altro per arrivare a comprenderlo. Vale l’ammonimento di Rousseau per cui “l’educazione è perdere tempo per guadagnarne”. 

martedì 3 febbraio 2015

Nomi e pregiudizi

Questo blog nasce come tentativo di aprire spazi di riflessione sulla questione della disabilità. Il tema, che merita articolati approfondimenti data la sua complessità, richiede un esame teorico e pratico necessario per la comprensione e valutazione della società nella quale viviamo.  Non si è subito in grado di cogliere la soggettività altrui. Occorre una lunga e attenta riflessione perché “l’altro” non venga ridotto all’oggettività della sua condizione fisica e sociale. Pensiamo alla facilità con cui vengono classificati “gli altri” facendo riferimento alla loro patologia o ai loro limiti di funzionalità: ciechi, sordi, muti, invalidi, mutilati, paraplegici, tetraplegici, handicappati… o “diversamente abili”, per finire con l’espressione politicamente corretta, piuttosto inconsistente. Come direbbe Massimiliano Verga, “è il virus del politicamente corretto che rende tutti più buoni, che trasforma lo spazzino in operatore ecologico, il controllore del tram in tutor di linea, il muratore in addetto all’edilizia. E via dicendo.” La classificazione dell’altro è pur sempre rassicurante e questo linguaggio rischia di diventare un modello con cui le stesse persone finiscono con il rappresentare loro stesse quando si trovano nella condizione di una malattia. Usciamo da questa falsificazione e torniamo allora alla domanda: ma come dobbiamo chiamarli costoro, se non possiamo definirli handicappati, diversamente abili…? Come suggerisce Adriano Pessina, chiamiamo ognuno di loro, di noi, per nome proprio: Camilla, Marica, Sebastiano... “Privare del nome proprio qualcuno per definirlo con il nome della sua patologia o delle sue limitazioni funzionali, significa porre le basi per mutare il senso stesso delle relazioni come relazioni di giustizia… Se la giustizia significa, secondo un detto antico, dare a ciascuno il suo, la prima cosa che dobbiamo ‘restituire’ agli altri è il senso della loro soggettività perché è nel nome proprio che sta il fulcro di ogni relazione. Può sembrare un paradosso ‘dare a ciascuno il suo’ perché se è suo non c’è bisogno di darglielo, e se non lo è non gli si deve nulla... (Ma) fa pensare al fatto che a qualcuno è possibile sottrarre proprio ciò che gli appartiene.”